I custodi della terra

Vi sono momenti nella vita in cui accade di fermarsi e bearsi alla vista di un paesaggio incontaminato.

La natura nella sua ricchezza di flora, di erbe, fiori, frutti ed ortaggi non smette di affascinare l’animo umano e risveglia in tutti noi al vederla usurpata dall’inquinamento, dalla deforestazione, dall’ingordigia del potere il desiderio di proteggerla, di salvaguardarla per tenerla vicino a sé.
In milioni di anni il rapporto degli uomini con la natura è passato dall’esserne sovrastati e venerarla con antiche divinità primordiali, a convivere con essa per il proprio sostentamento, sino a pensare di domarla, imprevedibile furia, senza però cogliere il progressivo allontanamento ed abbandono che ne comporta.
Difficilmente mentre riposiamo dalla calura estiva all’ombra di un maestoso albero di fico, di pero o di pesco sovviene alla mente che anche sol uno di essi sia a rischio di estinzione.
Ma questo invece è uno dei fatti con cui si confrontano esperti provenienti da tutto il mondo sin dal secolo scorso: il progressivo impoverimento della biodiversità floristica.
Le prime comunità di seed savers, custodi dei semi, cioè coloro che si occupano di conservare i semi di fiori e vegetali nascono negli anni settanta con l’intento di preservare gli ortaggi rari e in via di estinzione riproducendo i semi ottenuti da orticoltori prevalentemente anziani. Tale necessità nasce a causa dei grandi cambiamenti avvenuti nel corso del trentennio precedente all’interno della comunità agricola, soprattutto nei metodi di coltivazioni divenuti, per esigenze economiche, intensivi e a grande resa, con enormi monoculture estensive a discapito della varietà geniche dei terreni agricoli a conduzione famigliare.
Prima gli agricoltori usavano scambiarsi tra di loro i semi, li portavano a mercato e quale prezioso bene a garanzia del sostentamento famigliare lo mostravano e scambiavano; non esistevano documentazioni scritte ma le informazioni passavano di bocca in bocca. E’ per questo che ora i depositari di questa antica saggezza sono gli anziani gli unici rigorosi custodi dei semi rimasti, conoscitori della ragione del loro successo, della loro provenienza e della loro ricchezza.
A livello normativo internazionale il problema della progressiva erosione delle varietà genetiche comincia ad emergere già nel 1983 a Roma con l’ Accordo Internazionale sulle Risorse Fitogeniche adottato nella Conferenza FAO.
E’ del 1992, invece, il testo della Convenzione sulla Diversità Biologica (CDB) che, durante il summit mondiale dei capi di stato di Rio de Janeiro, viene aperta alle firme e nel dicembre 2003 diventa operativa e vincolante avendo raggiunto il numero di adesioni necessarie.
La Convenzione stabilisce la sovranità nazionale degli stati sulle proprie risorse naturali, ovviamente il limite all’esercizio di tale sovranità è legato all’uso sostenibile delle risorse che ne deve essere fatto. Inoltre, la Convenzione promuove la cooperazione internazionale tra le nazioni e riconosce il legame indissolubile tra le comunità locali e le risorse biologiche che esse hanno sempre utilizzato e preservato ed in questo senso va loro riconosciuta una equa e giusta remunerazione. E’ la prima volta che il diritto internazionale riconosce il valore di soggetti quali le comunità rurali, cioè gli agricoltori, per la tutela della tradizione e della cultura di un popolo.
Sono le comunità, infatti, le principali fautrici di quella che si definisce la agrobiodiversità, la domesticazione delle piante, cioè la pratica, ad opera dell’uomo, di intervenire sui sistemi riproduttivi delle piante nel corso del tempo per selezionare e preservare alcune caratteristiche rispetto ad altre, sono i contadini che hanno creato le basi per le varietà locali da cui nascono le varietà moderne.
Tali conoscenze sono state tramandate di padre in figlio, da comunità a comunità ed oltre i confini nazionali nei secoli proprio grazie alla caratteristica di socializzazione dell’uomo e di condivisione delle conoscenze, mentre, nel corso degli ultimi decenni, in parte a causa del passaggio delle sementi da proprietà di tutti a esclusivo diritto di una nazione o per l’introduzione di diritti di proprietà intellettuali sulle stesse, la diffusione tradizionale delle culture si è andata affievolendo.
A quest’ennesimo scoglio frappostosi alla tutela delle biodiversità cerca di porre rimedio il Trattato Fao entrato in vigore nel 2004 con la sottoscrizione del 40° stato membro e da allora vincolante per gli stati firmatari. Gli Stati aderenti hanno stabilito di adottare uno spazio per le sementi gestito a livello multilaterale dove favorire lo scambio e la condivisione. Inoltre, i vantaggi provenienti dal miglioramento vegetale o dall’uso di biotecnologie debbono essere condivisi con il paese di origine del materiale. Tali regole, tuttavia, si applicano esclusivamente alle sementi della lista annessa al trattato che comprende 64 specie vegetali, corrispondenti, però, all’80% dei nostri consumi alimentari ortofrutticoli e provenienti in prevalenza da quattro colture principali: riso, grano, mais e patata.
Infine, all’articolo 9, sebbene non si definiscano specificamente i diritti degli agricoltori, il Trattato parla di diritti collettivi detenuti in capo alla popolazione rurale che conserva e seleziona la diversità agricola auspicando e promuovendo non solo la protezione delle conoscenze tradizionali, ma anche la partecipazione attiva nelle decisioni che li coinvolgono.
Per quanto attiene all’Unione Europea, c’è da dire che, sin dal dopo guerra, le diverse normative sementiere, a causa in parte della loro specificità e della struttura rigida grazie alla quale potevano essere commercializzate solo le varietà iscritte ai cataloghi, hanno in qualche modo influito in maniere negativa sulla tutela della biodiversità.
Quindi, se inizialmente lo scopo principale delle normative sementiere era quello di garantire sementi di qualità ai contadini al fine di aumentare la produttività agricola, da alcuni anni si riconosce la necessità di un cambiamento delle priorità affinché le politiche agricole non prescindano da concetti come le buone politiche agricole, la sostenibilità e la protezione dell’ambiente e delle biodiversità.
Inoltre, a maggior tutela della biodiversità, nel 1998 l’Unione Europea introduce una nuova varietà commercializzabile la “varietà da conservazione” proprio per tutelare la progressiva erosione genetica delle sementi.
A livello nazionale in Italia già dal 2007 è presente una normativa sulle varietà di conservazione, potenziata in seguito dal decreto legislativo applicativo della direttiva europea (D.L. 149 del 29/10/2009) che consente agli agricoltori che risiedono nei territori dove si è evoluta la varietà da conservazione la possibilità di commercializzarla anche se a livello locale ed in modica quantità.
Tuttavia, è doveroso ricordare che nel nostro territorio i precursori della difesa della biodiversità agricola sono state sicuramente le Regioni, con capolista la Toscana, che già nel 1997 prevedeva, con Legge Regionale, la conservazione, tutela e valorizzazione delle varietà e razze locali.
La Toscana fu poi seguita a stretto giro da altre regioni, come l’Umbria, dove vennero promulgate altre Leggi Regionali i cui scopi prevalenti erano quelli di conoscere, classificare e tutelare il patrimonio vegetale ed animale locale e permettere lo scambio del materiale conservato tra gli agricoltori per limitare il fenomeno erosivo.
In conclusione, credo che possiamo affermare con evidenza la necessità di plaudire e ringraziare gli agricoltori del nostro amato territorio se anche in futuro avremo la possibilità di assaporare prodotti tipici e locali cresciuti in situ ed ancora coltivati nei campi, infatti,non di rado, per arginare la perdita di biodiversità, è stato necessario ricorrere alla conservazione ex situ, cioè conservazione al di fuori dell’ambiente naturale in specifiche banche dei semi.
Ciò di cui siamo certi è che gli agricoltori sono i primi e principali custodi della terra.

Articolo a cura di Elisa Marchioro.